di Gianfranco Esposito – articolo pubblicato su “Conquiste del Lavoro”
Lo shock imposto dalla fase emergenziale ha provocato maggiori impegni di cura e assistenza ai figli e agli anziani in famiglia, dove la maggior parte del lavoro domestico è sempre stato svolto dalla donna. La situazione di emergenza sanitaria che stiamo vivendo ha contribuito a mettere in luce alcune caratteristiche del welfare italiano, sostanzialmente centrato sulla famiglia come ammortizzatore sociale e caregiver primario ed imperniato sulla figura femminile.
La pandemia ha infatti messo a dura prova molte famiglie, le cui figure più esposte sono state le donne, chiamate a riorganizzare i ritmi della quotidianità dividendosi tra lavoro, cura della casa, gestione delle attività scolastiche e dei momenti di gioco dei figli e spesso assistenza ai familiari più anziani. Lo rileva Donna e cura in tempo di Covid-19, un’indagine di Ipsos per WeWorld, i cui risultati dimostrano che il 60% delle donne italiane ha dovuto gestire da sola famiglia, figli e persone anziane, spesso insieme al lavoro: un carico pesante, che ha portato 1 donna su 2 in Italia a dover abbandonare piani e progetti a causa del Covid.
Gli ultimi dati Istat fotografano in modo impietoso, con la crudezza dei dati, il fenomeno: oltre il 70% del lavoro familiare è a carico della donna; solo il 50% delle donne ha un’occupazione a tempo pieno; la retribuzione del lavoro femminile nel nostro Paese è tra le più basse d’Europa. Insomma, le donne in Italia quando lavorano sono discriminate e in ogni caso il lavoro di cura (dei propri famigliari e della rete parentale allargata) grava ancora oggi sulle loro spalle. Una situazione che le costringe a un percorso “multitasking” che incide a fondo sul benessere della loro vita.
Quando i demografi, i sociologi, gli psicologi e gli esponenti sindacali pongono oggi con insistenza il problema della conciliazione dei tempi di vita e di cura, fanno sostanzialmente riferimento agli “equilibrismi” che la donna è costretta a compiere per incastrare nella sua vita quotidiana il lavoro fuori casa, quindi il suo impegno professionale, con tutti gli impegni e le responsabilità legate alla cura domestica, alla cura dei figli e dei suoi famigliari.
Questo perché, ancora oggi, in maniera molto estesa, si ritiene che il lavoro di cura sia di “competenza” pressoché esclusiva del mondo femminile. “Oltre ad un’innegabile arretratezza culturale che ancora caratterizza il nostro Paese e che risulta evidente nel persistere di tanti stereotipi e luoghi comuni sulla divisione dei ruoli e sulla gestione dei carichi famigliari, una delle cause principali di questa situazione è l’impianto fortemente familistico del sistema di welfare italiano – sottolinea a proposito la sociologa Chiara Saraceno – che tuttora delega alle famiglie la responsabilità di cura sia degli adulti in condizione di dipendenza, sia dei bambini”. Che sia per carenza di risorse o per incapacità di intercettare i bisogni della collettività, il welfare pubblico fatica a rispondere alle esigenze delle famiglie.
Un buon numero di famiglie non possono contare ancora oggi su una rete di servizi sociali che consenta ad entrambi i genitori di affrontare gli impegni professionali e quelli legati alle responsabilità famigliari con un minimo di serenità. Il rischio è quello di un arretramento sociale.
I servizi per le famiglie e l’infanzia erano già pochi prima della pandemia, adesso probabilmente saranno anche meno.
Bisogna tener conto poi di un altro importante aspetto: i danni psicologici prodotti dalla pandemia.
La paura della situazione nuova, inattesa e potenzialmente dannosa per la salute, in una condizione di isolamento sociale, hanno inevitabilmente incrementato il malessere psicologico predisponendo al rischio di cadute depressive.
Particolarmente esposte a questi effetti perversi sono le donne che si destreggiano, tra l’impegno lavorativo, la scuola dei figli a casa e la cura delle persone anziane. In questi mesi di pandemia è molto cresciuta la richiesta, anzitutto per iniziativa sindacale, di potenziare l’assistenza al domicilio e ridurre i ricoveri in ospedale e nelle Residenze sanitarie assistenziali.
Ciò che va potenziato sono principalmente le prestazioni sociosanitarie per la tutela del non autosufficiente nelle funzioni della vita quotidiana: per la cura di sé (lavarsi, vestirsi, nutrirsi, usare il bagno, muoversi in casa e fuori) e per la cura dell’ambiente domestico (fare la spesa, cura della casa). Tutele senza le quali è inutile anche una buona assistenza sanitaria al domicilio, come ben sa qualunque operatore sanitario. Ma questo tipo di interventi non può consistere solo in poche ore settimanali attualmente garantite dagli operatori sociosanitari: le persone non autosufficienti, per restare a casa, hanno bisogno di aiuti per gli atti della vita quotidiana tutti i giorni, e in numero adeguato.
Se ci accontentiamo di un welfare pubblico che al massimo garantisce poche ore alla settimana condanniamo di fatto al ricovero tutti i non autosufficienti che non hanno famiglie che possano integrare queste poche ore, o col loro lavoro di cura o con denaro per assumere badanti. “Occorre un’assistenza domiciliare sociosanitaria fondata – sostiene Maurizio Motta dell’ Istituto per la Ricerca Sociale – su offerte differenziate da adattare alla specifica situazione del paziente e della famiglia: assegni di cura per assumere lavoratori di fiducia da parte della famiglia (ma con supporti per reperirli e amministrare il rapporto di lavoro, ove la famiglia non sia in grado), contributi alla famiglia che vuole assistere da sé, affidamento a volontari, buoni servizio per ricevere da fornitori accreditati assistenti familiari e pacchetti di altre prestazioni (pasti a domicilio, telesoccorso, ricoveri di sollievo, piccole manutenzioni, trasporti ed accompagnamenti), operatori pubblici (o di imprese affidatarie) al domicilio”.
La principale indicazione è pertanto quella di migliorare e meglio articolare l’offerta di assistenza domiciliare se, come previsto, nei prossimi anni sono destinati ad aumentare gli anziani soli e isolati. Anche il demografo Gianpiero Dalla Zuanna ne avverte l’impellente necessità poiché “I pochi figli (o sempre più spesso l’unico figlio) chiederanno agli enti pubblici e al terzo settore di essere aiutati nell’assistenza socio-sanitaria del genitore, sempre più spesso di entrambi i genitori, quando insorgono seri problemi di disabilità”. Riscontri analoghi si hanno in ambito sindacale.
Piero Ragazzini, Segretario Generala Fnp Cisl, rimarca e constata con amarezza che: “le nostre richieste per un welfare nuovo, in grado di far fronte alle sempre più numerose e non facili necessità di una vita che si allunga, portandosi con sé patologie croniche da curare con assiduità, non hanno avuto mai risposte, se non quelle che si limitavano a concessioni occasionali poco efficaci. Abbiamo diritto ad una sanità efficiente, all’altezza delle necessità di una società che cambia, che presenta difficoltà sempre crescenti, dove quasi ogni famiglia ha al proprio interno un anziano, un invalido o un disabile a cui prestare assistenza, conciliando il tutto con esigenze lavorative e familiari”.
Nell’insieme è un segnale che viene inviato ai nostri decisori politici e a tutte le componenti della società. Ogni anno di ritardo nella promozione di autentiche politiche famigliari che accumuliamo rende sempre più vicino il punto di non ritorno.
Gianfranco Esposito